Donata Columbro e il data feminism


Da diversi anni mi occupo di raccontare i grandi cambiamenti in corso nel mondo, prestando particolare attenzione all’ambiente, ai diritti, all’innovazione sociale, culturale e tecnologica, dando voce soprattutto ai giovani e alle donne, nelle cui mani è riposto il futuro.

Per fare questo, voglio dare spazio e parola a professionisti e professioniste impegnate nel sociale, fonti di ispirazione, che con la loro visione e intraprendenza ogni giorno si impegnano a far rete e a creare progetti di crescita, per migliorare il benessere della comunità.

Ho quindi intervistato Donata Columbro, giornalista, divulgatrice, scrittrice, che per la sua capacità accessibile e inclusiva di parlare di “cultura dei dati” è stata definita una “data humanizer”; è inoltre docente in diverse università (Iulm, Università della Svizzera Italiana, Luiss, ma anche alla Scuola Holden) e pubblica ogni settimana una newsletter dedicata a dati, algoritmi e tecnologia. Tra i suoi ultimi libri: Quando i dati discriminano (Il Margine 2024).

Giornalista, divulgatrice, scrittrice. Chi è Donata Columbro? Quali sono i traguardi di cui è più orgogliosa?

Una domanda difficilissima perché come dice chi mi conosce bene “non sono mai contenta”. In realtà sono felice di poter fare un lavoro che è praticamente sempre lo stesso da quando ho finito l’università, anche se è cambiato il contesto e sono cambiate nel tempo le strutture in cui l’ho esercitato: i libri, la newsletter, i giornali con cui collaboro mi permettono semplicemente di fare giornalismo, che è una risposta al mio tormento interiore, quello di scrivere e raccontare le ingiustizie di cui vengo a conoscenza. E le possibili soluzioni.

Lei è stata definita una data humanizer. Ci spiega questa definizione?

Giorgia Lupi ha parlato di umanesimo dei dati ricordando che dietro ogni statistica, ogni numero, ogni grafico, ci sono le storie delle persone. A me interessa anche ricordare che il processo per produrle quelle statistiche, quei numeri, quei grafici, è totalmente umano, quindi fallibile, incerto, soggettivo e situato, cioè ben contestualizzato a livello geografico, storico e anche nel corpo che abitiamo.

Da esperta del settore, come leggere una notizia che contiene dati?

Guardare le fonti, cercare di capire se i dati raccontano più punti di vista, qual è la metodologia con cui sono stati raccolti e analizzati, chiedersi esattamente cosa è stato misurato, verificare la granularità di quei dati, cioè quale livello di disaggregazione presentano, e poi analizzare le parole con cui sono stati descritti.

Ogni settimana invia la sua newsletter Ti spiego il dato con le sue riflessioni su dati, algoritmi e tecnologia con un approccio femminista intersezionale. Può farci un esempio della correlazione tra dati e femminismo?

Il femminismo dei dati mi ha fatto capire che il modo in cui abbiamo sempre presentato il linguaggio dei numeri e delle statistiche come freddo e rigoroso fosse in realtà un modo per allontanare le persone dalla vera comprensione dei dati. Il femminismo dei dati chiede di guardare alla data science e alla statistica cercando di individuare le ingiustizie che producono e chi esercita il potere della quantificazione, invitandoci a chiederci chi ha beneficiato dalla raccolta di certi dati e chi è stato discriminato, chi era nella stanza quando sono state decise le domande di un’indagine statistica e chi non è mai stato interpellato e rimane sempre ai margini, o non viene mai “contato” perché non ha valore di rappresentanza. Un esempio pratico è quello della violenza economica, dal momento che la ricchezza e la povertà sono calcolate a livello familiare, e non individuale, e questo nasconde molte disuguaglianze interne, e a farne le spese sono soprattutto le donne.

Si ricorda quando e per quale “battaglia” ha iniziato a essere un’attivista per il “data feminism”?

Sicuramente dopo la lettura di Data Feminism di Catherine D’Ignazio e Laureen Klein mi sono resa conto che stavo portando avanti anche io stessa un modo di usare i dati come giornalista, ma anche di insegnare a usare i dati come docente con un approccio tradizionale: cerchiamo i dati a nostra disposizione e iniziamo a raccontare delle storie. Invece ho capito, e ci sto ancora lavorando su questo, che sfidare il potere, uno dei compiti del giornalismo tra l’altro, è anche farsi delle domande su cosa stiamo contando, chi stiamo lasciando fuori e quali sono queste conseguenze, soprattutto oggi che i dati sono alla base dell’addestramento delle cosiddette “intelligenze artificiali” generative di contenuti che possono perpetrare stereotipi e bias su scala virale. Quindi insegno e scrivo anche di meta-dati, cercando di guardare all’obiettivo finale, e non solo allo strumento in sé. Il femminismo dei dati mi ha aiutato tantissimo a incorporare e praticare il femminismo in generale, perché nelle tabelle e nelle rappresentazioni visuali le oppressioni all’interno della nostra società diventano ancora più evidenti.

Divario di genere e mondo del lavoro: per sua esperienza, quanto costa il gender pay gap nel mercato del lavoro italiano? Quali soluzioni bisognerebbe optare per migliorare la situazione?

Non sono un’esperta di lavoro, ma se devo parlare di dati io andrei a guardare i diversi settori in cui il gap è più evidente e cercherei di capire perché e soprattutto chi sono le persone più colpite. Quali donne, per esempio? Tutte? Quelle che hanno i titoli di studio più alti oppure no? Le straniere, le donne con disabilità? Non mi fermerei a parlare esclusivamente di gap di genere, perché altrimenti non riusciamo a capire dove intervenire.

Lei ha pubblicato tre libri, Ti Spiego il Dato (2021), Dentro l’algoritmo e, a marzo 2024, Quando i dati discriminano. Può raccontarci di cosa parla l’ultima sua fatica letteraria?

È un libro in cui sviluppo il concetto dei dati situati, cioè in cui provo a dire, in 3 capitoli (è un pamphlet, si legge in metà pomeriggio) che i dati sono un costrutto sociale e che non possiamo usarli come strumento oggettivo di rappresentazione della realtà, che le discriminazioni si producono sia quando i dati mancano sia quando le domande che ci facciamo prima della raccolta hanno stereotipi e bias, e poi che queste discriminazioni esistono a livello storico, e derivano anche dal fatto che usiamo concetti matematici (come la normalità) per spiegare differenze tra esseri umani e raggrupparli in categorie per determinare i loro comportamenti (lo fanno gli algoritmi a cui insegniamo di cercare somiglianze tra insiemi, per esempio).

Per suo studio ed esperienza, chi nel mondo ha il potere e il privilegio di “muovere i dati”?

Chi può pagare bollette della luce milionarie e costruire enormi data center. C’è una disparità di potere enorme tra chi può raccogliere e gestire i dati e chi ne subisce le conseguenze, anche dal punto di vista dei ruoli professionali di chi lavora nell’industria tech, dove c’è un grande gap non solo dal punto di vista di genere, ma anche tra Nord e Sud globale, dove la manodopera tecnologica esiste ma è sottopagata, non ci sono diritti riconosciuti e viene anche difficilmente menzionata quando si parla di scienza dei dati.

Secondo lei, come possiamo acquisire una maggiore consapevolezza, da consumatori, sui dati che produciamo e cediamo, anche inconsapevolmente, alle diverse piattaforme?

Decondizionare gli automatismi che ci portano a cliccare velocemente su qualsiasi informativa della privacy per accettare tutto senza leggere.

Ci può indicare tre profili di professionisti/e attivisti/e che sono una fonte di ispirazione e/o un punto di riferimento valoriale e culturale per lei?

Sicuramente la giornalista Mona Chalabi, che ha vinto il premio Pulitzer per una visualizzazione di dati della ricchezza di Jeff Bezos; l’information designer Federica Fragapane per le sue riflessioni (e illustrazioni) mai scontate sul lavoro di chi rappresenta visivamente i dati; Linda Laura Sabbadini, statistica e pioniera delle statistiche per gli studi di genere in Italia e in Europa.

Nei prossimi 5/10 anni, quali traguardi si spera vengano raggiunti nell’ambito del “data humanism e data feminism”?

Tra 5/10 anni nessuno dirà più che i dati sono neutri, avremo tutti i dati pubblici pubblicati in formato aperto così saranno accessibili a chiunque, compresi quelli sull’interruzione volontaria di gravidanza che non sono mai disponibili in modo completo e disaggregato, e tutti i corsi universitari che propongono le materie statistiche avranno un approccio femminista ai dati, perché guarderanno alle conseguenze di ogni raccolta, analisi, pulizia e rappresentazione dei dati. Che sogno!